IO nel senso di dieci. Quando va bene.
Questa constatazione - un tantino nebulosa, ma adesso andrò ad ingarbugliarla davvero - nasce dalla collisione puramente casuale ( ma tanto il caso non esiste, vero C.P.?) delle mie riflessioni attuali con questo post bellissimo. L’urto è stato parecchio violento e creativo, un po’ come quello che porta la placca indiana ad infrangersi ripetutamente su quella eurasiatica sollevando la catena montuosa dell’Himalaya.
Ed è così che mi trovo davanti alla mia personale cordillera, che non so se scalare, aggirare o, semplicemente e molto più tibetanamente, contemplare.
Il tutto ebbe origine qualche giorno fa, quando ho cominciato la rocambolesca avventura di stipare me stessa in un curriculum vitae dal formato stupido, ma europeo.
Ce l’avevo un curriculum, ma andava decisamente aggiornato, soprattutto in visione della forsennata decisione di mandarlo un po’ in giro.
La prima inadeguatezza riscontrata sta nel nome: perché, tanto per cominciare, si dovrebbe chiamare curriculum vitarum.
Ci dovrei racchiudere tutte le mie reincarnazioni, tutte le arabe fenici delle mie vite precedenti, tutte le nuove edizioni di me stessa. Di cui nessuna è neanche soltanto simile all’altra, che non sono legate tra loro da niente, se non da un sottile crine che è quello della passione. Che si sa, tira più di un carro di buoi.
Allora, tutti i formatori, tutti i responsabili delle risorse umane, tutti gli illuminati selezionatori di tagli di carne viva, proprio per ovviare alla sterile, fredda, insipida asciuttezza di una serie di esperienze inanellate in un résumé, suggeriscono di allegare una lettera di presentazione.
Hai detto niente. Dovrei scrivere di me in maniera che ogni parola trasudi la mia stessa essenza. Non solo, devo anche cercare di essere accattivante, sensata, mai troppo sopra le righe. Ecco, allora non devo essere proprio me stessa in senso letterale, piuttosto una me riveduta e corretta. (Un editor, mi serve un editor di me stessa!).
E allora, ritorno al loop del curriculum: ma chi sono io? Dopo l’iniziale afasia, che credo prenda chiunque di noi quando ci viene richiesto di descriverci in quattro parole, ho iniziato a scrivere. Poi a riscrivere. Poi a cancellare. La versione definitiva redatta da una delle mie me in una serata tirata a limare contenuti e parole, risuonava ridicola e insufficiente agli occhi di quell'altra che il mattino dopo si era svegliata nella mia mente.
Quindi che faccio? Un curriculum per ogni mia versione e una lettera di presentazione per ogni mia coinquilina mentale? Ma così, attraverso un approssimativo calcolo combinatorio, vengono fuori almeno una decina di me.
Qualcuno potrebbe spaventarsi.
Io per prima.
giovedì 21 gennaio 2010
venerdì 8 gennaio 2010
Vita ad engrammi.
Gli engrammi mi hanno sempre affascinato: rappresentano la nostra capacità di agire per default.
Una sorta di modalità automatica che ci permette di eseguire anche operazioni complesse, mentre, sotto sotto, pensiamo ad altro.
L’esempio classico della funzionalità degli engrammi ci è dato dalla guida dell’auto: usciamo dal garage e intanto prendiamo appunti mentali su come affrontare quel tal problema; oppure, imbocchiamo la tangenziale e contemporaneamente decidiamo cosa cucinare per gli amici che verranno a cena. Poi, può anche capitare di discutere mentalmente e appassionatamente con un’altra persona, e quindi rendersi conto di aver cannato l’uscita. Però, incredibile dictu, abbiamo continuato a guidare. E senza causare incidenti.
Perché abbiamo usato la nostra dotazione di engrammi.
Ora, tutto ciò è meraviglioso e sicuramente segno di grandezza divina.
Tranne quando ci rendiamo conto che stiamo percorrendo la nostra vita ad engrammi.
In che modo? Assumendo sempre le stesse modalità di comportamento perché sono state reiterate e quindi codificate dal nostro sistema psicomnemonico.
Continuando una routine che ha senso solo come ottundimento dei sensi e delle ragioni vere che ci porterebbero a sovvertirla.
Poi, succede di ritrovarsi su una strada che non sappiamo neanche quando abbiamo imboccato e di chiedersi “ma dove sto andando?” (o come Quelo “ma quando sto andando?”).
La risposta è nella prima traversa a sinistra e non è mai sbagliata, ve lo assicuro.
Però, per imboccarla, bisogna scendere dalla macchina e proseguire a piedi.
Una sorta di modalità automatica che ci permette di eseguire anche operazioni complesse, mentre, sotto sotto, pensiamo ad altro.
L’esempio classico della funzionalità degli engrammi ci è dato dalla guida dell’auto: usciamo dal garage e intanto prendiamo appunti mentali su come affrontare quel tal problema; oppure, imbocchiamo la tangenziale e contemporaneamente decidiamo cosa cucinare per gli amici che verranno a cena. Poi, può anche capitare di discutere mentalmente e appassionatamente con un’altra persona, e quindi rendersi conto di aver cannato l’uscita. Però, incredibile dictu, abbiamo continuato a guidare. E senza causare incidenti.
Perché abbiamo usato la nostra dotazione di engrammi.
Ora, tutto ciò è meraviglioso e sicuramente segno di grandezza divina.
Tranne quando ci rendiamo conto che stiamo percorrendo la nostra vita ad engrammi.
In che modo? Assumendo sempre le stesse modalità di comportamento perché sono state reiterate e quindi codificate dal nostro sistema psicomnemonico.
Continuando una routine che ha senso solo come ottundimento dei sensi e delle ragioni vere che ci porterebbero a sovvertirla.
Poi, succede di ritrovarsi su una strada che non sappiamo neanche quando abbiamo imboccato e di chiedersi “ma dove sto andando?” (o come Quelo “ma quando sto andando?”).
La risposta è nella prima traversa a sinistra e non è mai sbagliata, ve lo assicuro.
Però, per imboccarla, bisogna scendere dalla macchina e proseguire a piedi.
martedì 5 gennaio 2010
Masterpiece 2009.
Queste sono le immagini più belle del 2009. Non è il mio sfrenato anticlericalismo o il fatto di essere seriamente antipapale a farmi esprimere questo giudizio: è che le ritengo veramente belle, potentemente espressive, eleganti e accurate.
Come una moderna installazione d’arte, come una performance riuscitissima e talentuosa. Mi dispiace per Maurizio Cattelan, ma Susanna Maiolo gli ha dato parecchi punti.
Guardatele bene.
Il corteo papale incede in tutta la sua plurisecolare solennità.
E’ un moto immobile, o un’immobilità in movimento, fa lo stesso.
Il papa e la Chiesa (metto la maiuscola per chiarire che qui si parla dell’aberrante istituzione) sono uguali a se stessi da sempre: tra il dipinto del Vasari sul corteo di Leone X e le immagini attuali cambia solo la foggia dell’abbigliamento.
Ad un tratto, dalla folla, con scatto atletico anziché no, emerge questa donna che si lancia in direzione del Ratzy, cerca di abbracciarlo (abbracciarlo!!!) e invece lo manca a causa del placcaggio di un papaboy. Riesce ad afferrare un lembo della veste papale e lo trascina a sé.
Il papa cade.
Guardate adesso come cade: come una statua tirata giù dal suo piedistallo, come una colonna dal plinto. Insomma, come il monolito semi-spirituale che perfettamente rappresenta e guida, e di cui anche questa caduta è un’espressione perfetta.
Io sono rimasta ipnotizzata dal ralenti zoomato delle varie riprese.
Uguali, tra l'altro, tranne che nell’esito, ad un precedente tentativo della stessa artista (altro che mitomane psicolabile!): che anche in quell’occasione vestiva con una giubba rossa e spiccò lo stesso agile balzo.
Ora, i simbolismi, le allegorie, i particolari nascosti si sprecano, come in qualsiasi opera d’arte riletta e criticata: l’audio della folla è un altro piccolo capolavoro, così come ci sarebbe tanta esegesi da fare sull’atteggiamento postumo di tutti i rappresentanti della Chiesa.
Ma la bellezza pura di questo salto d’amore che nell’impeto del passione abbatte l’oggetto del suo sentimento, non ha bisogno di spiegazioni: è evidente e magica, come uno spettacolo della natura, come un grande affresco.
Non è stato un gesto dettato dallo stesso anticonformismo delle tele squarciate o dei baffi alla Gioconda o della cacca inscatolata. Non è stato un gesto plateale per rinnegare il passato e dare inizio ad un nuovo modo di fare arte, ops, religione. Anzi.
È’ stato piuttosto un richiamo al messaggio cristiano nella sua essenza valente e dirompente: io ti amo e ti voglio abbracciare. Vengo a te, come Gesù mi ha invitato a fare. Mi scavo la strada in mezzo a migliaia di altri che dicono di amarti come me, ma in realtà stanno lì a guardare e a fotografarti, anche dopo che sei caduto.
E’ stato nella sua essenziale, densa brevità un apologo sull’amore cieco: ti amo e per questo ti abbatto, ti annullo.
Porca miseria! Se non è arte questa!
Come una moderna installazione d’arte, come una performance riuscitissima e talentuosa. Mi dispiace per Maurizio Cattelan, ma Susanna Maiolo gli ha dato parecchi punti.
Guardatele bene.
Il corteo papale incede in tutta la sua plurisecolare solennità.
E’ un moto immobile, o un’immobilità in movimento, fa lo stesso.
Il papa e la Chiesa (metto la maiuscola per chiarire che qui si parla dell’aberrante istituzione) sono uguali a se stessi da sempre: tra il dipinto del Vasari sul corteo di Leone X e le immagini attuali cambia solo la foggia dell’abbigliamento.
Ad un tratto, dalla folla, con scatto atletico anziché no, emerge questa donna che si lancia in direzione del Ratzy, cerca di abbracciarlo (abbracciarlo!!!) e invece lo manca a causa del placcaggio di un papaboy. Riesce ad afferrare un lembo della veste papale e lo trascina a sé.
Il papa cade.
Guardate adesso come cade: come una statua tirata giù dal suo piedistallo, come una colonna dal plinto. Insomma, come il monolito semi-spirituale che perfettamente rappresenta e guida, e di cui anche questa caduta è un’espressione perfetta.
Io sono rimasta ipnotizzata dal ralenti zoomato delle varie riprese.
Uguali, tra l'altro, tranne che nell’esito, ad un precedente tentativo della stessa artista (altro che mitomane psicolabile!): che anche in quell’occasione vestiva con una giubba rossa e spiccò lo stesso agile balzo.
Ora, i simbolismi, le allegorie, i particolari nascosti si sprecano, come in qualsiasi opera d’arte riletta e criticata: l’audio della folla è un altro piccolo capolavoro, così come ci sarebbe tanta esegesi da fare sull’atteggiamento postumo di tutti i rappresentanti della Chiesa.
Ma la bellezza pura di questo salto d’amore che nell’impeto del passione abbatte l’oggetto del suo sentimento, non ha bisogno di spiegazioni: è evidente e magica, come uno spettacolo della natura, come un grande affresco.
Non è stato un gesto dettato dallo stesso anticonformismo delle tele squarciate o dei baffi alla Gioconda o della cacca inscatolata. Non è stato un gesto plateale per rinnegare il passato e dare inizio ad un nuovo modo di fare arte, ops, religione. Anzi.
È’ stato piuttosto un richiamo al messaggio cristiano nella sua essenza valente e dirompente: io ti amo e ti voglio abbracciare. Vengo a te, come Gesù mi ha invitato a fare. Mi scavo la strada in mezzo a migliaia di altri che dicono di amarti come me, ma in realtà stanno lì a guardare e a fotografarti, anche dopo che sei caduto.
E’ stato nella sua essenziale, densa brevità un apologo sull’amore cieco: ti amo e per questo ti abbatto, ti annullo.
Porca miseria! Se non è arte questa!
lunedì 28 dicembre 2009
2009 - La morte fiorita
Arriva il tempo di pensare in maniera conclusiva: pare che questa sia la fase dell’anno che meglio si presta all’uopo. E devo dire che il tempo, piuttosto che arrivare, mi è proprio caduto in testa con la stessa forza di una travata.
Conseguenza: sono due giorni che vivo una sorta di stand-by narcolettico auto-indotto.
Finita la sessione straordinaria delle 72 ore interamente trascorse a cucinare-lavare-rassettare-mangiare-lavare-rassettare, intervallate da brevi spazi di trance iperglicemica, ora mi tocca mettere a cuocere un piccolo bilancio del 2009. Non so perché, ma mi tocca.
Cioè, lo so perché: perché il 2009 è stato l’anno dei grandi tagli. Agìti e subìti.
Piccole cose, all’inizio: spuntature, smussature, accorciamenti.
Poi le grandi forbici metafisiche si sono trasformate in una mannaia ferale che ha iniziato a recidere un po’ di legami.
Anche se poi il taglio più netto di tutti l’ho fatto a mani nude e assomigliava un po’ quel sacrificio azteco (?) in cui si strappa il cuore dal petto per offrirlo alla divinità. Solo che la vittima sacrificale ed il sacerdote officiante erano la stessa persona: io. Ma la buona notizia è che non mi sono strappata il cuore, ma solo una membrana un po’ spessa che lo ricopriva.
Ora, come bilancio non mi sembra particolarmente brillante: però sospendo il giudizio su questo capitolo, perché quando faccio qualcosa (di buono o di cattivo) me ne accorgo sempre dopo.
Invece, voglio concentrarmi sulle persone, che sono sempre la parte più cospicua della mia vita: e adesso le sto pensando una ad una.
Quelle degli affetti di sempre e quella degli affetti di mai. Quella che se n’è andata lontano e quelle che lontano ci sono sempre state, ma che sono più vicine di tante nei paraggi. Quella che non ho ben capito come o perché, ma è andata così. Quella che ho capito come e perché, ma mi dispiace lo stesso che sia andata così. Quelle che sono sbucate fuori all’improvviso ‘come pepite in un mucchio di sassi’ (e magari non hanno ancora una faccia o una voce, come piccoli feti di amicizie nasciture) e mi hanno reso felice proprio per la loro estemporaneità. Quelle generose e calorose come una fetta di torta panna e fragole e quelle tiepide come una minestrina riscaldata, ma tutte indispensabili (il segreto è un alimentazione varia).
Quelle che fanno e dicono cose che mi piacciono e per questo mi insegnano tanto, e quelle che fanno e dicono cose che non mi piacciono, ma mi insegnano tanto lo stesso (però col metodo maieutico).
E tante altre ancora, tra cui soprattutto quelle che mi fanno ridere e quelle con cui rido.
Ma non tutte: perché ho capito che si può fare a meno di molte persone e moltissime di più possono fare a meno di me.
Ma è proprio questa la cosa più meravigliosa di tutte: pensare che, nonostante ciò, ci si cerchi lo stesso.
Conseguenza: sono due giorni che vivo una sorta di stand-by narcolettico auto-indotto.
Finita la sessione straordinaria delle 72 ore interamente trascorse a cucinare-lavare-rassettare-mangiare-lavare-rassettare, intervallate da brevi spazi di trance iperglicemica, ora mi tocca mettere a cuocere un piccolo bilancio del 2009. Non so perché, ma mi tocca.
Cioè, lo so perché: perché il 2009 è stato l’anno dei grandi tagli. Agìti e subìti.
Piccole cose, all’inizio: spuntature, smussature, accorciamenti.
Poi le grandi forbici metafisiche si sono trasformate in una mannaia ferale che ha iniziato a recidere un po’ di legami.
Anche se poi il taglio più netto di tutti l’ho fatto a mani nude e assomigliava un po’ quel sacrificio azteco (?) in cui si strappa il cuore dal petto per offrirlo alla divinità. Solo che la vittima sacrificale ed il sacerdote officiante erano la stessa persona: io. Ma la buona notizia è che non mi sono strappata il cuore, ma solo una membrana un po’ spessa che lo ricopriva.
Ora, come bilancio non mi sembra particolarmente brillante: però sospendo il giudizio su questo capitolo, perché quando faccio qualcosa (di buono o di cattivo) me ne accorgo sempre dopo.
Invece, voglio concentrarmi sulle persone, che sono sempre la parte più cospicua della mia vita: e adesso le sto pensando una ad una.
Quelle degli affetti di sempre e quella degli affetti di mai. Quella che se n’è andata lontano e quelle che lontano ci sono sempre state, ma che sono più vicine di tante nei paraggi. Quella che non ho ben capito come o perché, ma è andata così. Quella che ho capito come e perché, ma mi dispiace lo stesso che sia andata così. Quelle che sono sbucate fuori all’improvviso ‘come pepite in un mucchio di sassi’ (e magari non hanno ancora una faccia o una voce, come piccoli feti di amicizie nasciture) e mi hanno reso felice proprio per la loro estemporaneità. Quelle generose e calorose come una fetta di torta panna e fragole e quelle tiepide come una minestrina riscaldata, ma tutte indispensabili (il segreto è un alimentazione varia).
Quelle che fanno e dicono cose che mi piacciono e per questo mi insegnano tanto, e quelle che fanno e dicono cose che non mi piacciono, ma mi insegnano tanto lo stesso (però col metodo maieutico).
E tante altre ancora, tra cui soprattutto quelle che mi fanno ridere e quelle con cui rido.
Ma non tutte: perché ho capito che si può fare a meno di molte persone e moltissime di più possono fare a meno di me.
Ma è proprio questa la cosa più meravigliosa di tutte: pensare che, nonostante ciò, ci si cerchi lo stesso.
sabato 28 novembre 2009
Cronache dal confine e cronache al limite.
Sono alla stazione, aspetto il trenino, che mi porterà nella cuore della metropoli tentacolare a pochi km dal mio paesello. Invece del solito scassone, arriva un Minuetto, il regionale nuovo di pacca, il cui nome è veramente riduttivo: pulizia, modernità e comfort suonano come una sinfonia alle stanche orecchie delle mie membra da viaggiatrice di rottamaglie incallita.
E’ anche in orario, porcodinci!
Salgo, mi accomodo e attendo. La fermata sembra durare più del previsto, poi le porte si chiudono: l’elegante display sulla mia testa segnala un minuto di ritardo.
Va beh, non stiamo a fare i pinoli. Il treno però non parte e le porte vengono riaperte da un solerte ferroviere in servizio sul trenuetto seguito da un suo simile. Tra i due trenitalioti (forse capotreno e controllore, non so) che chiamerò giovane e anziano, per gli amici g e a, intercorre il seguente dialogo:
g – Un momento, scusa capo, ho riaperto perché ci sono due ragazzi che stanno correndo…hanno fatto tardi…li possiamo aspettare, c’è tempo. Altri due minuti, che problema c’è…
a – Dovevamo partire a 03.
g – Appunto (?) sono 04, un altro minutino, cheffà…
a – Vabbuò…
Dopo un minutinocheffà arrivano due ragazzi trafelati che ringraziano per essere stati graziati (dopo dodici minuti c’era un altro treno, eh?), troppo gentili, davvero, non dovevate (eccerto che non dovevano).
g - Ma l’amico che era con voi? (???). L’ho visto lì sulla banchina…che fa, viene?”
r.t. - Adesso lo chiamo col cellulare e vedo.(!!!) Ahò, che fai vieni, che il treno ti aspetta?...No, non viene, ha desistito.
g – Ma perché? Possiamo aspettarlo, c’è tempo… (da adesso in poi eviterò l’interpunzione indignata e perplessa e il perché si capisce) Sicuri che non viene? Lo aspettiamo, eh. Lo volete richiamare per dirglielo?
r.t. – No, no, non fa niente, grazie, gentilissimo…
g – Ma figuratevi, quando si può fare…
Ecco: quando? Quando si può fare?
Comunque, incredibilmente il treno-taxi parte.
Prima fermata, delle due che mi riguardano, a S.: 3 ragazzi stranieri, direi nordafricani, chiedono in un italiano stentato ma comprensibile se il treno arriva a B.
g – (che a questo punto ho capito avere lo stesso q.i. di un paramecio, però taaanto buon cuore) No ragazzi, questo treno va a S.
Sulla faccia dei suoi interlocutori si accende un lampeggiante enorme a forma di punto interrogativo che sta a dire ‘cazzo, ma noi a S. ci siamo già.’
Imperterrito g continua: “ Su, salite, che poi a S. prendete il treno per B”.
Il lampeggiante maghrebino, ormai in assetto di allarme e confusione totale, con intermittenza da codice rosso continua a segnalare ‘cazzo, ma noi a S. ci siamo già, cazzo, ma noi a S. ci siamo già, cazzo, ma noi a S. ci siamo già.’
lunedì 9 novembre 2009
Madame Modesta c'est moi!
Non posso fare una recensione de L'arte della gioia: la storia di Modesta è la mia storia.
Non ho ucciso mia madre, non ho amato donne (almeno non fisicamente), non ho subito la galera o il confino per reati politici e, soprattutto, non sono riuscita a diventare principessa.
Ma la mia vita è la stessa sequela di delitti e determinazione, di volontà di affermazione e lunghi sonni, antifascismo profondo e disprezzo per ogni forma di religione, soprattutto se androcentrica.
Con la differenza che la mia storia è molto meno interessante.
Il rapporto che si è instaurato tra me e Modesta durante la lettura è quindi di natura intima e personale, per cui questa pseudorecensione va di diritto su questo blob/g. Parafrasando Patrizia Cavalli, se non leggo di me e non mi ritrovo, succede che mi confondo.
A beneficio pubblico, dirò solo che è un libro che insegna molto sull'essere donne e persone in generale ed è necessario come lo sono i libri di Simone de Beauvoir o quelli della saga di Angelica o di Adrienne Rich.
Non ho ucciso mia madre, non ho amato donne (almeno non fisicamente), non ho subito la galera o il confino per reati politici e, soprattutto, non sono riuscita a diventare principessa.
Ma la mia vita è la stessa sequela di delitti e determinazione, di volontà di affermazione e lunghi sonni, antifascismo profondo e disprezzo per ogni forma di religione, soprattutto se androcentrica.
Con la differenza che la mia storia è molto meno interessante.
Il rapporto che si è instaurato tra me e Modesta durante la lettura è quindi di natura intima e personale, per cui questa pseudorecensione va di diritto su questo blob/g. Parafrasando Patrizia Cavalli, se non leggo di me e non mi ritrovo, succede che mi confondo.
A beneficio pubblico, dirò solo che è un libro che insegna molto sull'essere donne e persone in generale ed è necessario come lo sono i libri di Simone de Beauvoir o quelli della saga di Angelica o di Adrienne Rich.
venerdì 6 novembre 2009
AAA Cercasi Editor per sprazzi di gioia improvvisi e sparsi.
Mi sono resa conto di accumulare, quasi quotidianamente, un discreto numero di sprazzi di gioia intensa, che presi singolarmente occupano lo spazio di pochi secondi, ma che misurati in decibellezza a volte soddisfano il fabbisogno di un'intera giornata.
Sono scariche inattese, involontarie e soprattutto immotivate, che spingono da dentro sorrisi, brividi e palpitazioni: è come essere innamorati per una manciata di minuti senza sapere di chi.
A volte possono essere innescati da una canzone, da un panorama, da un incontro: ma non giurerei sulla relazione di causa-effetto tra questi accidenti vari.
Ora, se qualcuno bravo nell'editing di vite e sentimenti, mi aiutasse a mettere insieme questo materiale e a dargli una forma e un ordine consolatorio come quello di un bel libro o di un bel film...
Sono scariche inattese, involontarie e soprattutto immotivate, che spingono da dentro sorrisi, brividi e palpitazioni: è come essere innamorati per una manciata di minuti senza sapere di chi.
A volte possono essere innescati da una canzone, da un panorama, da un incontro: ma non giurerei sulla relazione di causa-effetto tra questi accidenti vari.
Ora, se qualcuno bravo nell'editing di vite e sentimenti, mi aiutasse a mettere insieme questo materiale e a dargli una forma e un ordine consolatorio come quello di un bel libro o di un bel film...
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