giovedì 21 gennaio 2010

OGGI SONO IO.

IO nel senso di dieci. Quando va bene.

Questa constatazione - un tantino nebulosa, ma adesso andrò ad ingarbugliarla davvero - nasce dalla collisione puramente casuale ( ma tanto il caso non esiste, vero C.P.?) delle mie riflessioni attuali con questo post bellissimo. L’urto è stato parecchio violento e creativo, un po’ come quello che porta la placca indiana ad infrangersi ripetutamente su quella eurasiatica sollevando la catena montuosa dell’Himalaya.

Ed è così che mi trovo davanti alla mia personale cordillera, che non so se scalare, aggirare o, semplicemente e molto più tibetanamente, contemplare.

Il tutto ebbe origine qualche giorno fa, quando ho cominciato la rocambolesca avventura di stipare me stessa in un curriculum vitae dal formato stupido, ma europeo.

Ce l’avevo un curriculum, ma andava decisamente aggiornato, soprattutto in visione della forsennata decisione di mandarlo un po’ in giro.

La prima inadeguatezza riscontrata sta nel nome: perché, tanto per cominciare, si dovrebbe chiamare curriculum vitarum.

Ci dovrei racchiudere tutte le mie reincarnazioni, tutte le arabe fenici delle mie vite precedenti, tutte le nuove edizioni di me stessa. Di cui nessuna è neanche soltanto simile all’altra, che non sono legate tra loro da niente, se non da un sottile crine che è quello della passione. Che si sa, tira più di un carro di buoi.

Allora, tutti i formatori, tutti i responsabili delle risorse umane, tutti gli illuminati selezionatori di tagli di carne viva, proprio per ovviare alla sterile, fredda, insipida asciuttezza di una serie di esperienze inanellate in un résumé, suggeriscono di allegare una lettera di presentazione.
Hai detto niente. Dovrei scrivere di me in maniera che ogni parola trasudi la mia stessa essenza. Non solo, devo anche cercare di essere accattivante, sensata, mai troppo sopra le righe. Ecco, allora non devo essere proprio me stessa in senso letterale, piuttosto una me riveduta e corretta. (Un editor, mi serve un editor di me stessa!).

E allora, ritorno al loop del curriculum: ma chi sono io? Dopo l’iniziale afasia, che credo prenda chiunque di noi quando ci viene richiesto di descriverci in quattro parole, ho iniziato a scrivere. Poi a riscrivere. Poi a cancellare. La versione definitiva redatta da una delle mie me in una serata tirata a limare contenuti e parole, risuonava ridicola e insufficiente agli occhi di quell'altra che il mattino dopo si era svegliata  nella mia mente.

Quindi che faccio? Un curriculum per ogni mia versione e una lettera di presentazione per ogni mia coinquilina mentale? Ma così, attraverso un approssimativo calcolo combinatorio, vengono fuori almeno una decina di me.
Qualcuno potrebbe spaventarsi.
Io per prima.

venerdì 8 gennaio 2010

Vita ad engrammi.

Gli engrammi mi hanno sempre affascinato: rappresentano la nostra capacità di agire per default.

Una sorta di modalità automatica che ci permette di eseguire anche operazioni complesse, mentre, sotto sotto, pensiamo ad altro.
L’esempio classico della funzionalità degli engrammi ci è dato dalla guida dell’auto: usciamo dal garage e intanto prendiamo appunti mentali su come affrontare quel tal problema; oppure, imbocchiamo la tangenziale e contemporaneamente decidiamo cosa cucinare per gli amici che verranno a cena. Poi, può anche capitare  di discutere mentalmente e appassionatamente con un’altra persona, e quindi rendersi conto di aver cannato l’uscita. Però, incredibile dictu, abbiamo continuato a guidare. E senza causare incidenti.
Perché abbiamo usato la nostra dotazione di engrammi.

Ora, tutto ciò è meraviglioso e sicuramente segno di grandezza divina.
Tranne quando ci rendiamo conto che stiamo percorrendo la nostra vita ad engrammi.
In che modo? Assumendo sempre le stesse modalità di comportamento perché sono state reiterate e quindi codificate dal nostro sistema psicomnemonico.
Continuando una routine che ha senso solo come ottundimento dei sensi e delle ragioni vere che ci porterebbero a sovvertirla.
Poi, succede di ritrovarsi su una strada che non sappiamo neanche quando abbiamo imboccato e di chiedersi “ma dove sto andando?” (o come Quelo “ma quando sto andando?”).
La risposta è nella prima traversa a sinistra e non è mai sbagliata, ve lo assicuro.
Però, per imboccarla, bisogna scendere dalla macchina e proseguire a piedi.

martedì 5 gennaio 2010

Masterpiece 2009.

Queste sono le immagini più belle del 2009. Non è il mio sfrenato anticlericalismo o il fatto di essere seriamente antipapale a farmi esprimere questo giudizio: è che le ritengo veramente belle, potentemente espressive, eleganti e accurate.

Come una moderna installazione d’arte, come una performance riuscitissima e talentuosa. Mi dispiace per Maurizio Cattelan, ma Susanna Maiolo gli ha dato parecchi punti.
Guardatele bene.
Il corteo papale incede in tutta la sua plurisecolare solennità.
E’ un moto immobile, o un’immobilità in movimento, fa lo stesso.
Il papa e la Chiesa (metto la maiuscola per chiarire che qui si parla dell’aberrante istituzione) sono uguali a se stessi da sempre: tra il dipinto del Vasari sul corteo di Leone X e le immagini attuali cambia solo la foggia dell’abbigliamento.
Ad un tratto, dalla folla, con scatto atletico anziché no, emerge questa donna che si lancia in direzione del Ratzy, cerca di abbracciarlo (abbracciarlo!!!) e invece lo manca a causa del placcaggio di un papaboy. Riesce ad afferrare un lembo della veste papale e lo trascina a sé.
Il papa cade.
Guardate adesso come cade: come una statua tirata giù dal suo piedistallo, come una colonna dal plinto. Insomma, come il monolito semi-spirituale che perfettamente rappresenta e guida, e di cui anche questa caduta è un’espressione perfetta.
Io sono rimasta ipnotizzata dal ralenti zoomato delle varie riprese.
Uguali, tra l'altro, tranne che nell’esito, ad un precedente tentativo della stessa artista (altro che mitomane psicolabile!): che anche in quell’occasione vestiva con una giubba rossa e spiccò lo stesso agile balzo.
Ora, i simbolismi, le allegorie, i particolari nascosti si sprecano, come in qualsiasi opera d’arte riletta e criticata: l’audio della folla è un altro piccolo capolavoro, così come ci sarebbe tanta esegesi da fare sull’atteggiamento postumo di tutti i rappresentanti della Chiesa.
Ma la bellezza pura di questo salto d’amore che nell’impeto del passione abbatte l’oggetto del suo sentimento, non ha bisogno di spiegazioni: è evidente e magica, come uno spettacolo della natura, come un grande affresco.
Non è stato un gesto dettato dallo stesso anticonformismo delle tele squarciate o dei baffi alla Gioconda o della cacca inscatolata. Non è stato un gesto plateale per rinnegare il passato e dare inizio ad un nuovo modo di fare arte, ops, religione. Anzi.
È’ stato piuttosto un richiamo al messaggio cristiano nella sua essenza valente e dirompente: io ti amo e ti voglio abbracciare. Vengo a te, come Gesù mi ha invitato a fare. Mi scavo la strada in mezzo a migliaia di altri che dicono di amarti come me, ma in realtà stanno lì a guardare e a fotografarti, anche dopo che sei caduto.
E’ stato nella sua essenziale, densa brevità un apologo sull’amore cieco: ti amo e per questo ti abbatto, ti annullo.

Porca miseria! Se non è arte questa!